Gli investimenti insufficienti nel welfare territoriale acuiscono il divario tra Nord e Sud Italia. Ma i dati dicono che con provvedimenti adeguati si può invertire la rotta.
La crisi sanitaria in corso ha fatto emergere con chiarezza le conseguenze dei mancati investimenti sui territori, anni di risparmi e contrazioni del welfare di cui oggi noi tutti sentiamo la mancanza e la necessità.
Leggendo i dati raccolti prima del 2020 (gli ultimi disponibili) e pubblicati dall’Istat emerge un quadro non proprio semplice da interpretare. In linea generale tra i servizi comunali maggiormente diffusi troviamo l’assistenza domiciliare socio-assistenziale che è presente su tutto il territorio nazionale e che si rivolge soprattutto agli anziani (83,9% nel 2018), ai disabili (67,8% nel 2018) e alle famiglie (47,7% nel 2018). Sempre molto diffuso tra i Comuni è il voucher, assegno di cura, buono socio-sanitario (55,9% nel 2018).
Certamente questi dati confortano. La domiciliarizzazione delle cure è, infatti, sicuramente la chiave per decongestionare gli ospedali, risparmiare ed evitare soluzioni di welfare inappropriate. Tuttavia, quando si va a vedere quante persone effettivamente usufruiscono dei servizi, la situazione cambia decisamente: soltanto l’1% degli anziani che avrebbero bisogno del servizio effettivamente lo ottengono. La situazione non cambia per le altre categorie succitate, come ad esempio i disabili che superano di poco il 7% (Cfr. figura 1).
Figura 1. Utenti sulla popolazione di riferimento del servizio, 2018 (%)Fonte: Istat (2021)
Quello che emerge dai dati è chiaro: i Comuni si sono attrezzati per offrire i servizi, ma questi in ultima analisi risultano ancora poco utilizzati dai cittadini che ne avrebbero diritto, probabilmente perché sotto finanziati.
A preoccupare, anche a fronte dell’emergenza sanitaria ancora in atto, sono gli squilibri interni alla penisola, che vede il Centro e il Sud Italia in netto svantaggio, tanto nell’offerta di servizi comunali quanto nella capacità di presa in carico dei Comuni. In generale, emerge una situazione piuttosto preoccupante: in nessuna parte del nostro Paese i Comuni sembrano in grado di affrontare i problemi sociali cui sono chiamati.
Il deficit di offerta territoriale è emerso in tutta la sua drammaticità durante quest’ultimo anno pandemico. È evidente che occorre rifinanziare il welfare locale e definire una volta per tutte i Livelli Essenziali delle Prestazioni, facendo in modo che essi non vengano condizionati nella loro capacità (ma sarebbe opportuno parlare di incapacità) di spesa da finanziamenti insufficienti. Ciò soprattutto al Sud Italia, dove gran parte degli investimenti per i servizi sociali è a carico degli Enti Locali, che registrano contestualmente una spesa pro-capite ben al di sotto della media nazionale; al contrario del Nord Italia dove i servizi sembrano meglio finanziati, anche se i cittadini sono chiamati ad una maggiore compartecipazione rispetto al Meridione. L’offerta dei Comuni del Sud è costantemente sotto la media nazionale su tutti i servizi, tranne che per l’assistenza domiciliare socio-assistenziale e integrata per i disabili e anziani, dove però è in linea con la media nazionale (Cfr. figura 2)
Figura 2. Comuni che offrono il servizio sul totale Comuni, 2018 (%)Fonte: Istat (2021)
La situazione non cambia purtroppo neanche quando si leggono i dati riguardanti i servizi per l’infanzia: nel 2018/2019 sono ben 13.335 i servizi per la prima infanzia pubblici e privati, pari al 25% circa dei potenziali utenti. Dunque ben 7 bambini su 10 non hanno a disposizione un posto in asilo. Questa proporzione diventa ancor più scoraggiante nel Mezzogiorno d’Italia: il 13,3% contro il 25,5% della media nazionale. Eppure un dato positivo c’è: tra il 2017 e il 2018 è stato registrato un aumento di 5,6 punti percentuali rispetto allo 0,3% della media nazionale. I miglioramenti vanno nella direzione indotta dalle misure statali attuate a sostegno dello sviluppo del sistema socio-educativo per la prima infanzia e del riequilibrio delle differenze geografiche.
I nidi e i servizi integrativi per la prima infanzia rientrano tra i settori prioritari di intervento dei Piani d’Azione per la Coesione (PAC), introdotti già nel 2012 dal Ministero per lo Sviluppo e la Coesione, d’intesa con la Commissione europea, come strumento per potenziare l’offerta dei servizi di cura e ridurre il divario rispetto al resto del Paese nelle quattro regioni comprese nell’obiettivo europeo “Convergenza”: Puglia, Campania, Sicilia, Calabria. Inoltre, con il Decreto legislativo n. 65 del 2017 e il conseguente Piano di Azione Nazionale per il Sistema integrato di educazione e istruzione da 0 a 6 anni sono state stanziate risorse finanziarie aggiuntive, sia per sostenere interventi infrastrutturali, sia per contribuire alle spese di gestione e per la formazione continua del personale dei servizi educativi. Le risorse vengono ripartite annualmente tra le Regioni ed erogate ai Comuni sulla base di criteri di perequazione, che comportano l’assegnazione di maggiori risorse a sette regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
Pur ancora insufficienti, i miglioramenti ottenuti in questi anni al Sud mostrano che con i provvedimenti giusti si ottengono buoni risultati e che in futuro potremo raggiungere i livelli europei che mediamente si attestano al 35% di bambini sotto i 3 anni che frequentano una struttura educativa. Occorre continuare a sostenere il Paese nello sforzo di diventare sempre più una Nazione europea anche e soprattutto dopo la crisi sanitaria, ciò in particolar modo al Sud, senza trascurare il resto della penisola.
Anche sul lato dei servizi sociali sono molti i margini di miglioramento. Innanzitutto come detto in precedenza urge individuare i Livelli Essenziali delle Prestazioni. Ma questo sarebbe un esercizio inutile se poi sul territorio continuiamo ad offrire servizi frammentati. L’esperienza che stiamo vivendo in questi mesi mostra che non sarebbe peregrino pensare anche ad una organizzazione della domanda, magari attraverso uno Sportello Unico delle Famiglie. L’organizzazione della domanda permetterebbe una migliore e più raffinata programmazione dei servizi, con indubbi vantaggi sull’efficacia e l’efficienza degli stessi.